La fine dell’estate per me ha sempre rappresentato un momento tragico. Chi mi conosce, lo sa. Dall’età di 10 anni con mamma, papà e sorella si fuggiva dal ridente paesino in pianura per raggiungere la casa al mare dei nonni, che – grazie alla lungimiranza di mio nonno paterno, il quale costruì in tempi non sospetti un appartamento al primo piano – divenne il nostro rifugio per l’estate. La casa si trova in un villaggio senza tempo, ricco di vegetazione e silenzio, tra due note località marittime siciliane: tuttavia nemmeno coloro che sono del posto ne sanno un granché. Ricordo ancora tutte le volte che a scuola mi veniva chiesto: «tu ce l’hai la casa al mare? Dove?»; non appena davo loro la risposta, seguivano spallucce e uno sguardo di disapprovazione, come a dire sotto i baffi «che posto è?». Senza locali, lidi, gente, discoteche.
Per me è il posto: a quindici anni praticamente l’inverno non esisteva. Trascorrevo la maggior parte del tempo, durante l’anno, a lamentarmi e a scrivere sul diario quanto fosse insopportabile dover aspettare nove lunghissimi mesi per essere di nuovo felice. Il mio concetto di felicità, a quei tempi, non era particolarmente sofisticato e coincideva spesso con una partita a carte sul muretto del bar, con la mia migliore amica di allora. E rientrava nello stesso anche uscire dopo pranzo per andare a casa sua, con 35 gradi all’ombra, mentre tutti dormono e ci sono solo cicale troppo chiacchierone a scandire i minuti del pomeriggio.
Andare in panchina a trascorrere ore intere senza fare nulla o, in alternativa, guidare i motorini degli altri perché tu ancora non ce l’hai; avere la casa libera, andare in discoteca e fare l’alba, dopo aver scavalcato dal cancello all’una di notte, preoccupandosi solo di non svegliare i nonni. E poi correre in bicicletta e cadere, andare al mare alle due del pomeriggio muniti di olio solare cancerogeno (a quei tempi era un termine ancora non in uso) perché l’unico obiettivo è abbronzarsi, ma anche guardare le repliche dei telefilm coi capelli bagnati sul divano, addormentarsi davanti alla tv e svegliarsi con la voglia di un gelato confezionato e di una partita a flipper.
Oggi la fine dell’estate non mi fa disperare come allora. A volte era così struggente dover cambiare casa, che finivamo per rimpiangere persino gli utensili della cucina di uso quotidiano perché non sono più «quelli del mare». I piatti gialli e i bicchieri azzurri, li avremmo riutilizzati nove mesi dopo. E quando a settembre, i primi temporali ti costringevano a prendere dall’armadio vecchie felpe e camicie di jeans anni ’90, immediatamente guardavi a parei e costumi con immensa tristezza.
Oggi la fine dell’estate non è una fine. Vivo in una città col mare, sono sufficientemente grande da non dover chiedere a mamma e papà di accompagnarmi a rivedere Playa Grande, d’inverno. Il costume me lo porto in valigia, ché tanto a cambiare è solo il tipo di spiaggia. Se tutto va bene, cominceremo a coprirci a inizi novembre. Le ferie durano talmente poco che spesso finiscono nel bel mezzo dell’estate, quindi non c’è più nessuna riunione al bar per salutarsi, mentre fuori piove, come il gruppo de La Capannina in Sapore di mare. Ognuno torna nella propria città a gioire per l’ADSL, la palestra, gli aperitivi, le serie tv e l’aria condizionata. Anche io ho fatto la mia lista dei buoni propositi durante tutto il mese e mi sento invincibile. Durerà, forse, per un mese e mezzo ancora: il tempo dell’ultimo bagno.